30 dicembre 2015

Regionale veloce

F. arriva in stazione che il treno è già al binario, lo sapeva che non doveva attardarsi così tanto ma quel abbraccio che profuma di infanzia non poteva scioglierlo come niente fosse, solo che ora è lì che corre, la sciarpa che lascia scoperti solo gli occhi, il cappotto che la rende ancora più goffa del normale e il borsone che pesa sulla spalla; quel paio di pantaloni in più poteva lasciarli a casa ma almeno l'ultimo dell'anno bisogna cedere alla vanità. Lancia un "aspetti!" soffocato dalla lana, al controllore che è pronto a fischiare, mentre oblitera in maniera un po' sbilenca il biglietto, spera solo che sul treno non le facciano storie, a volte sono così pignoli. Entra nello scompartimento con un po' di fiatone, c'è il tepore asciutto dei tipici riscaldamenti dei treni, quello che secca il palato ma per fortuna c'è. Si allarga la sciarpa perché le manca un po' il fiato, lo scompartimento è vuoto, pensa che è un po' strano ma alla fine meglio così, nessuno che cerca di attaccare bottone. Si accomoda giusto quando il treno comincia a muoversi, si rassetta un po', la corsa si è fatta sentire, è un po' fuori allenamento e rimpiange l'aver interrotto la palestra, un po' per pigrizia, un po' per mancanza di testa e tempo. E' un po' persa nei suoi pensieri F. quando sente fischiettare, tanto che, sulle prime, pensa sia dentro la sua testa, poi si accorge che non è sola nel vagone, c'è qualcuno tre file più avanti, vede una nuca che spunta dalla spalliera del sedile vicino al finestrino. F. vorrebbe prendere il libro che ha in borsa ma la sua curiosità è forte, cerca di capire che canzone sta fischiettando il passeggero misterioso seduto più avanti; le sembra di riconoscerla ma quando pensa di averla individuata c'è qualche variante di tono che le fa cambiare idea. Il treno ha ormai lasciato la città e sferraglia ondeggiando nella campagna buia; F. guarda fuori ma non vede niente, nemmeno la luna, "strano", pensa, "non c'erano nuvole quando sono partita" ma poi si concentra nuovamente sulla canzone, è un suono triste, una specie di nenia ma, forse per incapacità nel modulare, forse per ragioni di gusto personale, ha come una incrinatura nella melodia, come se scendesse di una ottava in maniera ciclica, come un improvviso refolo freddo dietro il collo. Non sa perché pensa questa cosa ma è come se lo sentisse davvero e così controlla se il finestrino è chiuso bene; fuori è sempre tutto buio, eppure ci sarebbe dovuto essere quel paesino di poche anime, ma magari è più avanti o forse è passato e pensava alla musica. F. si sente inquieta, il tizio continua a fischiettare, non fa altro; lo ha identificato come un uomo sulla quarantina ma in realtà non ne sa nulla. Ci si sta fissando F., ride, "sempre così" pensa, "sono troppo curiosa"; decide di fare altro, prende il cellulare, vuole chiamare lui, la ragione del viaggio, ci pensa e sorride, le succede sempre, dall'inizio di tutto, e finchè si sorride la partita è vinta e persa insieme. Nessun segnale, sotto le feste le compagnie telefoniche sono peggio del solito; appena passa il controllore deve chiedere se sono in orario, non vuole che lui aspetti da solo, in stazione, così tardi. Strano che non sia già passato, solitamente non fa nemmeno in tempo a sedersi che arriva a chiedere "biglietti", avrà poca voglia di lavorare pure lui, in fondo è la sera del 30 dicembre, vorrà essere a casa invece che su questo "regionale veloce" che poi non sembra nemmeno veloce; sarà il buio ma se non fosse per il dondolio sembrerebbe fermo nel nulla. Ad F. gira un po' la testa, forse avrebbe dovuto mangiare qualcosa prima di partire, e poi quel caldo opprimente da riscaldamento bloccato, sembra aumentare, mette sonnolenza; e quella nenia che non accenna a smettere, F. si chiede come faccia, quel tizio, a fischiettare senza riprendere fiato. Il cellulare è ancora morto; si allarga il collo della maglia per prendere un po' di fresco, se lo leverebbe se non fosse sconveniente; si alza per cerca di aprire il finestrino ma è bloccato, la testa gira un po' di più, le gambe le cedono e ricade seduta, non capisce che succede, sente il panico salire, "calma F, stai calma", si ripete dentro, fa anche una risata dandosi della stupida ma si sente stanca, la testa gira sempre più forte; chiude gli occhi un attimo e sente le palpebre pesanti, cerca di riaprirli ma ci riesce solo in parte, nella nebbia che le è calata davanti ha solo il tempo di vedere il tizio che fischietta alzarsi e girarsi verso di lei sorridendo; poi il buio.

29 dicembre 2015

Segni

La piscina è praticamente deserta, un paio di ragazzi stanno tirando le ultime bracciate prima di andare via; M. T. ama venire di venerdì sera, dopo le dieci, rimane sola e ha tutta la piscina a disposizione; il centro sportivo rimane aperto 24 ore su 24 ma la gente, poca, che si avventura di venerdì sera, solitamente preferisce la sala attrezzi al piano di sopra perché lì c'è la musica, gli istruttori, qualcuno a cui mostrarsi. In piscina invece si è più nascosti, impegnati nel mettere un braccio dopo l'altro e a spingere via i pensieri, o almeno è il motivo per cui M. T. ci va; non le piace la folla, il doversi ricavare il proprio spazio, già lo fa tutti i giorni, nella vita, no, almeno in piscina non vuole ingombri, andando a quell'ora è sempre praticamente sicura di essere solo lei e l'acqua; in dicembre poi pochi hanno la forza d'animo di lasciare il calore delle proprie case per mettersi in costume e andare a muovere i muscoli atrofizzati. I due ultimi nuotatori la salutano mentre vanno verso gli spogliatoi, è sola, la piscina è illuminata più delle pareti che la contengono, questo contrasto, combinato con la temperatura dell'acqua, mostra una lieve evaporazione in superficie, come una leggera foschia. M. T. lascia scivolare l'accappatoio su una delle sedie e accoglie il familiare brivido che produce la temperatura dell'aria sulla pelle nuda, sorride un po', come sempre, anche se questa volta ha come l'impressione che quel brivido duri di più, che sia più profondo. Si volta d'istinto verso le gradinate buie, quelle che nei giorni di gara accolgono i parenti e gli amici dei nuotatori; sono vuote come si aspettava e si dice che quel prolugamento dei brividi sarà stato provocato da qualche spiffero, qualche porta lasciata socchiusa. Prima di tuffarsi dà un'occhiata al display del cellulare, sospira lieve, nessun messaggio, come pensava; si avvicina al bordo della piscina sentendo un po' più freddo di quanto si aspettasse e si affretta ad entrare in acqua con un tuffo preciso. L'impatto con l'acqua riscaldata le spande un lieve torpore, rimane ferma un attimo ad acclimatarsi a pancia in sù, gli occhi chiusi, la testa immersa quasi del tutto. Sott'acqua tutto è ovattato e anche quel poco di musica che, lieve, arriva dal piano superiore lì diventa una impercettibile linea di basso. Si sente completamente rilassata, quasi potesse addormentarsi da un momento all'altro e forse per un attimo succede perché si ridesta di soprassalto come se avesse sentito un rumore; apre gli occhi e tira su la testa ma non si sente nulla, se non quel po' di musica che fende il silenzio. Scuote un attimo la testa e decide che è il momento di allungarsi e scacciare, a suon di sforzi, i pensieri che da giorni, settimane, le occupano il tempo. Ci mette un po' a spezzare il fiato, le prime due vasche procedono lente, quasi affaticate, poi sente di aver preso il ritmo solito, la giusta sincronia di braccia e respiro e procede leggera nell'acqua. I pensieri sono praticamente spariti, anche il rumore, anche il brivido; procede meccanica quando sente uno strattone alla caviglia, perde il momento della respirazione e finisce con la testa sotto, è una frazione di secondo ed è già ferma che tossisce un po', il respiro affannato dalla bracciata mancata e anche da una punta di inquietudine. Si guarda intorno, la sala è vuota, in piscina c'è solo lei, guarda anche sott'acqua, si sente un po' stupida a farlo soprattutto perché anche lì non c'è nulla. Immagina sia stato un crampo, probabilmente, pensa, ho tirato troppo; allunga un po' la gamba e sente che è tutto a posto; riprende a nuotare con meno spinta ma con una specie di muta oppressione. Chiude gli occhi un attimo e tira un respiro più profondo come quando, da bambini, si ha un incubo e si cerca di tornare alla realtà. Il ritmo riprende ad essere costante e preciso, M. T. ha virato l'ennesima vasca quando si sente tirare nuovamente, questa volta è sicura, non è un crampo, qualcosa la sta tirando giù e non sa cosa, sente una stretta forte al piede destro, uno strattone deciso; cerca di urlare sperando di essere sentita ma è già con la testa sotto, la bocca le si riempie di acqua. La stretta è come se si allentasse e per la spinta dell'acqua ritorna sù; appena è fuori con la testa tira un respiro profondo e fa per accennare una richiesta d'aiuto che si spegne immediatamente perché la stretta ricomincia a tirare e lei è ormai sotto. Il panico ha preso il controllo ed un uno spasmo butta fuori quel poco di aria che era riuscita a rubare; l'automatismo della respirazione è più forte di lei ed in un attimo ingloba acqua cercando ossigeno, i polmoni si chiudono, la stretta non molla nonostante lei si divincoli con forza. Con l'ultimo barlume di lucidità M. T. guarda in giù ma vede solo il fondo della piscina e l'acqua che si muove vorticosa intorno alle sue gambe. Porta le mani alla gola, sente che ormai non può più fare nulla, vorrebbe scegliere almeno il suo ultimo pensiero ma la paura le urla dentro e non riesce a formulare nemmeno quello. Ormai la superficie dell'acqua non ribolle più, si è calmata; l'unico movimento è quello del corpo di M. T. che risale spinto dall'acqua come se niente più lo tenesse sotto. Il giorno dopo i giornali le dedicheranno un trafiletto in cronaca tra una rapina ed una manifestazione: "La notte tra il 18 e il 19 dicembre M. T. di anni 42 è stata trovata morta nel centro sportivo di B. alle porte di Milano; gli inquirenti pensano sia dovuto ad un malore". Il medico legale accerterà la morte per annegamento e ne troverà la causa in una contrattura muscolare; spiegherà ai familiari che, con tutta probabilità, M. T. aveva avuto la contrattura nuotando e, presa dal panico, aveva respirato l'acqua della piscina, annegando. Quello che continuerà a non spiegarsi, per anni, sarà quel segno rosso intorno alla caviglia destra.

23 ottobre 2015

Quasi un naufragio

Alle volte le parole se ne vanno alla deriva, sparpagliate, non seguono nemmeno le correnti perché in quel caso sarebbe facile, studi le mappe, i venti, le stagioni e le vai a ripescare come le paperelle di un esperimento di un po' di anni fa. Le parole no, non sono paperelle galleggianti, no, sono delle strambe primedonne che hanno voglia della loro platea e se ne vanno a gruppi disconnessi, magari i soggetti con le congiunzioni, i verbi con i complementi e ancora, i gerundi con passati prossimi e gli indicativi a parte, condizionali a fondo, congiuntivi ai bordi di qualche occhio da far lacrimare. Sulle prime brucia, impazzisci per questa deriva da incontinenti, da parole che marcano il territori altrove, altrove da te, altrove con te; poi ti stanchi e le lasci andare, un briciolo di consapevolezza sul "tanto torneranno" che rasenta la follia e l'illusione. Ti inventi personaggi dentro la testa ma anche loro, effimere visioni, come fantasmi sembrano sparire all'alba; magari ti infili in gorghi malsani, per creare una storia che regga al futuro; diventi altro da te e metti fieno in cascina che speri verrà buono per il prossimo inferno. Passi il tempo rimandando a domani, sia sul foglio bianco che nella vita, poi domani arriva e diventa quello dopo, passano i giorni con le parole che si formano, magari altrove, che vanno a far sognare altre teste, che vanno a far ridere altre bocche e tu sei lì e qui, in questo spazio che quasi ti sembra polveroso; batti le mani ed un pulviscolo di punteggiatura riluce dentro fasci di storie vecchie, quelli che filtrano dalle finestre dell'anima. Le parole in fondo sono lettere, ti dici, che come tasselli di un puzzle formano figure, solo che hanno forme ambigue e cangianti, mutevoli e adattanti e tu non sembra le sappia più adattare. Confidi nella rabbia che altre volte ti ha fatto creare dei mostri di carta ma nemmeno quella, per ora, sembra abbastanza, soffocata da delusioni effimere e virtuali; come le persone. Le parole sono anche quello, sono le persone che abitano la tua testa, i mille personaggi che non sei stato, quelli che avresti voluto, quelli che hai temuto di diventare; rimangono lì, anche loro stanchi, stanchi di far teatro su un palco di periferia; sognando i teatri importanti, gli applausi veri, le lacrime a fiumi, le risate scroscianti e quei personaggi che ami, anche quelli che ancora non hai conosciuto, che non hai ancora creato; quei personaggi rimangono lì, a guardare le parole che, quasi disgregandosi, diventano lettere e fonemi e suoni per poi spandersi nel cielo come scintille di fuochi d'artificio. Allora ti siedi un attimo, respiri, come se te ne fossi scordato e guardi, e vedi che le parole sono lì, frutti in attesa di essere raccolti; e allora ti togli di dosso un po' della tua stessa polvere e vai a mietere i chicchi di lettere.

02 settembre 2015

Nove anni

Oggi questo blog compie nove anni, che a pensarci è un gran bel po' di tempo per un blog che sono tipo i cani, ogni anno ne vale circa 7 umani. In quest'ultimo anno si è sentito vecchio, sia il blog che il suo autore; forse lo è, il blog eh, non l'autore! Si rigira stanco le sue parole, ne cerca altre, si confonde, si distrae, si sente stanco (questo l'autore ma magari pure il blog), legge poco e male, si innervosisce e scazza e poi ride e si tranquillizza (sempre l'autore). Ogni tanto mi guardo indietro e vedo le cose che ho scritto e poi rivedo le persone incrociate e quelle incontrare, le risate e le cazzate e non rinnego nulla, rifarei tutto, magari meglio; infiocchetterei le virgole, finirei i tre parole (ma ci conto ancora), e i reloaded e tutte le stupidaggini che mi sono inventato. Darei un seguito a tutti i racconti scritti, anche solo per vedere come sono invecchiati i personaggi. Riabbraccerei quelli che non ho più incontrato e mi riprometterei di farlo ancora e ancora. Il blog oggi compie nove anni, è un ometto ormai, verrebbe da farlo andare sulle sue gambe ma, alla fine, si rallenta, ci si allontana ma si torna e allora...che lo spettacolo continui.

10 agosto 2015

Quasi...

Quasi non me lo ricordo più come si scrive; come si formano, su carta, i pensieri. Quasi non mi rendo conto del tempo che passa, bene o male, come ha sempre fatto. Quasi mi viene voglia di abbandono, di ruderi, di castelli che hanno avuto una storia ed adesso non più. Quasi comincio a pensare di sbagliare sulle persone, e mai mi era successo. Quasi. Poi ripenso alle parole di Benni che dice che se guardi bene una parete vedrai le crepe di come la maceria si disegnerà; ecco, io mi ero semplicemente stancato di vedere le crepe delle persone, di sapere già le loro macerie, ad un semplice sguardo. Succede, ci si stanca un po' di tutto, per tanto o per poco tempo; ci si stanca che quasi non ti interessa più, quasi. Poi alla fine non ci riesci, le vedi le crepe, attraverso le parole e te ne dovresti fottere perché "non sono problemi tuoi" solo che non ho più l'età del sopportare, no, non per troppo almeno. Quasi non me lo ricordo più cosa volevo dire, in mezzo a tutti i pensieri che girano in testa. Quasi non so come continuare, Quasi. In fondo quando sei stato via per un po' di tempo ti sembra estranea quasi casa tua, devi riabituarti agli angoli, soprattutto agli angoli; devi riconoscere gli spigoli, le curve; quasi che non fosse casa tua, quasi. Quasi mi sgriderei per non aver rispettato gli appuntamenti annui qui sopra, quasi; ma ho lasciato che la vita andasse bene così che ogni tanto un quasi ci sta tutto. Quasi.

03 luglio 2015

Le regole dello "stocazzo"

Come spesso accade ci si dimentica che questo blog ha, principalmente, un intento educativo e sociale e quindi oggi ci occuperemo di dare una risposta definitiva sulle regole dello "stocazzo". Lo "stocazzo" è un famoso gioco di compagnia in cui si fa in modo di farsi fare una domanda a cui rispondere "STOCAZZO!" e suscitare ilarità negli astanti, compreso, a volte, il domandante. La storia del gioco affonda nella notte dei tempi e diverse sono le leggende che circolano sull'argomento; pare che in un frammento disperso dei "dialoghi di Timeo e Crizia" Platone raccontasse come gli abitanti di Atlantide per alleviare il peso degli studi, tra un simposio e l'altro, amassero sollazzarsi con dialoghi tipo "Oh, Amessimandro, c'è chi mette in dubbio i tuoi studi sul bilanciamento idrico", "Oh, Diudonio, chi osa?!", "STOCAZZO! Amessimandro". Alcuni storici ipotizzano che la civiltà atlantidea sia scomparsa per uno stocazzamento finito male. Fatto sta che lo “stocazzo” ha attraversato i secoli; ci sono geroglifici nella piramide di Cheope in cui un Horus guarda interrogativo Ra che gli fa il gesto delle mani, di taglio, sul basso ventre e Anubi ride divertito; il geroglifico è stato interpretato, da alcuni, come la maledizione del sole sul plesso solare ma storici più attenti lo definiscono la prima rappresentazione grafica dello “stocazzo”. Lo “stocazzo”, infatti, è stato rappresentato diverse volte nell’arte, come ha più volte sottolineato lo storico dell’arte Jean De Stocazzon arrivando a teorizzare una corrente artistica attraversante i secoli, chiamata “stocazzismo”. Secondo De Stocazzon il David di Michelangelo esprime la posa fisica della risposta “STOCAZZO!” ed è nudo proprio per questo motivo. La Gioconda, in realtà, sorriderebbe allusiva ad uno “STOCAZZO!” dettogli da Leonardo. De Stocazzon arriva a dire che lo stesso Urlo di Munch sia il ritratto di uno che ha preso male una stocazzata. Altri storici fanno risalire, invece, la nascita dello “stocazzo” al periodo delle Crociate quando gli uomini andavano in guerra e lasciavano le proprie donne da sole per anni; queste, per sopperire alla mancanza del proprio uomo, è noto, intrattenevano rapporti extraconiugali e pare che, quando gli amanti bussavano alle loro porte e loro chiedevano “chi è?”, si sentissero rispondere “STOCAZZO”, quasi fosse un codice. Quale ne sia la storia lo “stocazzo” è giunto fino a noi ed è stato protagonista di eventi storici importantissimi; nella famosa foto della Conferenza di Yalta, infatti, Churchill ha appena stocazzato Roosevelt e Stalin si trattiene dal ridere. Ma quali sono le regole dello “stocazzo”? In realtà sono molto semplici, bisogna fare in modo di farsi chiedere dal malcapitato qualcosa che consenta la risposta “STOCAZZO!” ma va chiarito che non tutte le domande vanno bene, anche se grammaticamente e sintatticamente giuste; non è possibile rispondere “STOCAZZO!” ad una domanda tipo “in che modo?” o a “come stai?” e per tale motivo il Comitato Olimpico Internazionale ha disciplinato che le uniche domande ammesse per lo “stocazzo” sono “chi?” e “cosa?”. Sicuri di aver chiarito i dubbi che, fino ad oggi, attanagliavano tutti vi invitiamo a rispondere, a chi, dubitando siano queste le regole, vi chiede “ma chi lo dice??”, con un grandissimo “STOCAZZO!!”.

07 giugno 2015

Canicola

Il caldo respira lento tra gli ulivi, nel frinire sfinito delle cicale. Lei è stesa tra le radici accoglienti di uno degli alberi più anziani, le fronde creano un'ombra che dà l'illusione di affievolire l'afa tutto intorno. Lui è seduto al suo fianco, la schiena appoggiata al tronco caldo e rugoso; vorrebbe dire qualcosa, anche di stupido, per rompere il silenzio ma tace e la guarda. Lei ricambia lo sguardo, ha un vestito leggero, bianco, da cui risaltano le lunghe gambe abbronzate; è scalza, i piedi sulla coperta che li protegge dalla terra rossa. Lui è più rigido di quello che dovrebbe, come davanti ad un esame per cui non ci si sente mai preparati, si muove il meno possibile per non farle vedere la sua emozione, come fosse un peccato originale. Lei lo guarda e sorride, lo vede che ha i muscoli tesi, anche lei ma, distesa, si nota meno. Ha i capelli lunghi, sciolti, che le fanno da cuscino e cornice alla testa; lui alza lo sguardo tra i rami a guardare la luce accecante passare tra le foglie. Il tempo è come sospeso in una bolla, forse è l'afa, forse sono loro, ma entrambi pensano che quel silenzio sta pesando troppo e quasi d'accordo esordiscono insieme con un “senti...” sospeso; si fermano e ridono, ognuno adesso vuole che l'altro parli per primo e, di nuovo, sono ad un empasse; lei si morde un labbro, lui respira profondo e come quando ci si tuffa da una scogliera altissima le dice “vorrei il coraggio di raccontarti tutti i brividi che mi dai”. Lei è sorpresa, quasi spiazzata, e non sa che dire; ora nemmeno lui sa bene quello che ha fatto ma, come quando ti tuffi, a metà non puoi mica tornare indietro e come se il suo corpo sapesse meglio di lui quello che è giusto, si piega su di lei e la bacia. Lei quasi non ci crede ma sente se stessa abbandonarsi partecipe. Non esistono più il caldo, la terra rossa, gli ulivi; esiste solo quel bacio e le loro mani che, come una carovana giunta all'oasi, non fanno che dissetarsi l'uno nell'altra. Non si può fermare l'acqua di un fiume in piena, rompe gli argini e le dighe improvvisate e loro, nel frinire sfinito delle cicale, si mischiamo le anime quasi fosse l'ultimo giorno del mondo.

04 giugno 2015

Milonga improvvisata

Dalla finestra aperta mi arriva un po’ della brezza di mare, me ne faccio poco, con questo caldo, ma è meglio di niente; meglio di sudare anche soltanto respirando. Mi sposto sul balcone di questo albergo con poche pretese, affacciato sulla sabbia; vedo la costa puntellata di luci, l’afa rende opaca anche la notte e la luna, enorme, è velata ai bordi. Un refolo un po’ più forte mi porta sollievo e una sensazione di musica; decido di scendere a passeggiare sulla riva, con la scusa di stancarmi e rinfrescarmi con in piedi in acqua ma, in realtà, mi spingo ad inseguire quell’ipotesi di melodia che m’ha rapito. La sabbia mi concede passi incerti, le impronte dietro di me spariscono nella risacca; la musica è un po’ più forte, riesco a stabilire da dove arriva e la scelgo come meta, in fondo una strada vale l’altra se vuoi solo camminare. Supero uno stabilimento balneare con il suo plotone di ombrelloni chiusi e lettini ripiegati; ora percepisco perfettamente tutte le note, la melodia è una schermaglia di scale, come la danza di accoppiamento degli scorpioni: un tango suonato dal vivo. La musica proviene da una milonga improvvisata su assi di legno sporche di sabbia; tangueri vestiti di tutto punto ballano concentrati e mi perdo nel loro intreccio di gambe, nei loro sguardi profondi, nel loro muoversi portandosi l’un l’altro. Alla fine di una lunga tanda le coppie si sciolgono dall’abbraccio e sciolgono le loro maschere in sorrisi pieni di vita, ringraziano con un applauso i musicisti ed il loro compagno o compagna. Ritorno sui miei passi ancora inebriato, con dentro la stanchezza serena del loro ballare.

Questo frammento lo scrissi quasi un anno fa per un altro blog che, tristemente, ha fatto una bruta fine, lo ripropongo qui perché m'è capitato di parlare di tango...

13 maggio 2015

Frammento di altra vita

La strada scende veloce dalla collina, ripida e storta come la schiena di un mulo anziano; è fatta per lo più di brecciolino di seconda mano, di terra battuta dalla costanza delle ruote, di sassi di altri pianeti arrivati di nascosto, o almeno così pensavo, allora, mentre a perdifiato, in bilico sulle due ruote della mia scalcinata bicicletta mettevo a dura prova le leggi della fisica che allora nemmeno conoscevo. Forse era per quello che riuscivo a curvare dove, invece, anche la più stupida delle forze centrifughe avrebbe dovuto farmi sbattere contro il muretto a secco che la seguiva lungo tutto il suo serpeggiare, fino al paese. Avrebbe dovuto farmi incontrare quelle pietre messe ad incastro preciso senza nemmeno uno sputo di collante, un'ombra di cemento, e da lì, in volo radente, andare ad abbracciare uno dei tanti alberi di ulivo che riempivano i terreni a destra e sinistra di quella strada. Certo, avrei potuto anche andare più piano, non ci fossero stati tre cani, randagi ed incazzati, che avevano deciso che io, la bici e soprattutto i miei polpacci, eravamo adatti ai loro denti. Non che non sapessi dei cani quando mi ero avventurato, in salita, su per la collina ma forse erano stanchi, forse troppo occupati con la loro noia, mi avevano lasciato passare e quindi, in fase di discesa, mai avrei pensato che, giunto alla prima curva, me li sarei visti arrivare, abbaianti e ringhianti, zappando la terra con le zampe nella foga di avere tutta la velocità del mondo per raggiungermi. Sia lodata la discesa e la forza di gravità, che allora, come detto, non conoscevo, perché, per quanto folle mi consentirono di arrivare indenne, nonostante le curve, ai piedi della collina, dove c'è la fontana.

17 aprile 2015

Intermezzo



Lo so che me ne sto in disparte, a parte, in parte. Sono semplicemente seduto da qualche parte, ad attendere che almeno un parte, se non tutto, si rimetta in moto e si combaci.

08 aprile 2015

Storiella zen

Un giorno, mentre camminavamo per il centro della città, chiesi al mio maestro “Maestro, come si fa a capire le persone?”, come suo solito mi guardò sorridendo e non mi rispose subito, mi disse solo “Seguimi”. Camminammo molto e attraversammo tutta la città; lo scenario cambiava ai miei occhi, passando dal centro pieno di attività commerciali e di gente indaffarata a zone residenziali con giardini e madri con figli, fino ad arrivare all’estrema periferia, nei quartieri più popolari, con case mal tenute e bambini lasciati giocare e urlare liberi e senza controllo. “Perché siamo venuti fin qui?”, chiesi al mio maestro, “Eravamo nella zona più ricca, in mezzo alla gente ed adesso siamo qui, in mezzo al degrado, con gente che ci guarda con sospetto; non mi sento a mio agio”. Il maestro nuovamente mi guardò e disse “Mi hai chiesto tu di spiegarti come si fa a capire le persone. Dici di non sentirti a tuo agio, siamo sempre nella nostra città, non siamo in un posto diverso, abbiamo solo percorso pochi chilometri eppure ti senti estraneo. Per capire davvero una città non puoi fermarti al centro, devi conoscerne anche la periferia; così è con le persone, devi guardare la loro periferia”, “Non capisco bene maestro, le persone hanno una periferia?”, “Sì, giovane allievo, è il contorno delle loro azioni, delle loro parole. Per capire una persona devi ascoltarla anche nelle pause di quello che dice, non solo nelle sue parole; devi essere attento ai gesti che nemmeno loro sanno di fare, a dove guardano i loro occhi. Ti accorgerai che magari il condottiero più coraggioso, mentre ti parlava, ti ha rivelato la sua paura più profonda. L’errore più grave che tu possa fare è quello di credere che una persona sia una facciata liscia perché, in realtà, è un mosaico sfaccettato ma devi cambiare la tua prospettiva per riuscire a scoprire tutte le sfaccettature, devi impegnare tutti i tuoi sensi e non concentrarti su uno solo. Devi ascoltare non solo quello che dicono davanti ad un pubblico ma anche quello che sussurrano quando credono che nessuno li ascolti; quella è la periferia delle persone. Ti senti osservato qui, in un posto sconosciuto, ti sentivi sicuro, in centro; eppure ogni mercante sorridente avrebbe voluto truffarci mentre qui, prima, ho fatto cadere il mio sacchetto di monete ed ora ce lo stanno riportando”. Un ragazzino di poco più di dieci anni, infatti, ci avvicinò timoroso e mise nelle mani del mio maestro il sacchetto tintinnante, ricevette una moneta come premio, ringraziò e scappò via.

30 marzo 2015

Passi di luna

“Passi di luna” danzava svagata ed attenta sulle assi di legno del vecchio teatro; la chiamavo così, tra me e me, non perché mi ricordasse il primo uomo sulla luna, con il suo saltellare goffo e grossolano ma perché, guardandola, veniva da pensare che lei non subisse, come noi, la gravità terrestre ma quella, ben più lieve, della luna. Volteggiava leggera mentre io, addetto alle luci, la guardavo nell’ombra beandomi di essere un ossimoro. Aveva i capelli corti che, con un leggero ondeggiare, seguivano i suoi cambi di direzione; sembrava quasi se ne accorgessero con un lieve ritardo e si affrettassero a seguire il resto del corpo. “Passi di luna” provava con la stacanovistica dedizione di un operaio russo e portava i calli come i generali portano mostrine e medaglie. Ogni tanto, nelle brevi pause che si concedeva le portavo una bottiglietta d’acqua, lei si sedeva a gambe incrociate ed io mi fermavo a scambiare due parole; mi sorrideva e mi guardava con i suoi grandi occhi scuri che, per non contraddire le labbra, sorridevano anche loro. Non che ci scambiassimo segreti di Stato o verità assolute, solo i classici convenevoli necessari a far passare il tempo, senza sforzi però, quasi naturali; in fondo eravamo diventati un po’ uno l’abitudine dell’altra, nulla di che ma solo quella piacevole sicurezza in mezzo alla giornata. Finita l’acqua si rialzava e non nascondo che, ogni volta, il distendersi delle sue gambe affusolate mi provocavano uno strano brivido lungo la schiena che terminava nell’arco di un leggero sorriso. Sono convinto che lo sapesse bene, che indugiavo su di lei, perché sorrideva, in quel caso, di un sorriso da gatta e tornando a camminare sulle assi di legno del palco, prima di spiccare il volo ed ammutolire la gravità, mi strizzava un occhio ed io tornavo al mio lavoro facendole un piccolo gesto di saluto con la mano.

13 marzo 2015

Un chimico

Da piccolo una delle cose che sognavo di fare, una volta adulto, era il chimico; che è strano per un bambino a cui non hanno mai regalato il piccolo chimico ma è così. La chimica mi piace, quel suo combinare degli elementi che, magari, non hanno niente in comune e farne un terzo producendo, solitamente, una reazione che, nel più classico degli esperimenti, è sempre una produzione di energia nella sua forma meglio conosciuta: il calore. Sì, ti dicono che potrebbe essere pericoloso, che a mettere vicino due elementi che magari, presi da soli, sono innocui, delle leggi strane, quasi magiche, possono farteli esplodere tra le mani, farti bruciare. Te lo dicono ma a te questa cosa, non sai spiegarti il perché, ti piace; forse è proprio la cosa che ti attira di più della chimica: capire perché due cose così semplici, placide, messe insieme possono rivelarsi così esplosive, generare un forte calore e, se non regolate con attenzione, bruciare. Te lo chiedi pure perché ti piaccia tanto andare a scoprire la natura delle cose, è un po’ come voler sapere i trucchi del prestigiatore, te ne leva la meraviglia. Ecco, fare il chimico è un po’ andare a scoprire i trucchi da prestigiatore di Dio, serve davvero a qualcosa? In realtà di ragioni per farlo ce ne sono tantissime ma a te, alla fine, le ragioni servono solo per evitare spiegazioni molto più lunghe alla gente, perché a te basta e avanza la storia del trucco da prestigiatore. Poi magari la vita non ti porta a fare esattamente quello che vuoi ma questo non significa che non ti faccia avere a che fare lo stesso con la chimica; no, la vita ti fa capire che anche le persone, spesso, sono elementi che, se messi insieme, producono una reazione che genera calore, che si autoalimenta, quasi a sfidare le leggi della natura; una reazione a volte esplosiva, che può anche consumare totalmente l’uno, l’altro o entrambi gli elementi. Sì, perché le reazioni tra gli umani sono complesse, magari gli elementi non li vedi sparire ma spesso, in realtà, si sono consumati fino a diventare cenere di se stessi; magari sembra che ci sono ancora, gli elementi, magari rimangono tangibili ma la verità è che si sono consumanti nella reazione tra loro. Ci sono, tra le persone, cliché che non ti spieghi, reazioni di attrazione che non capisci, rapporti di composizione sballati ma che girano, bilanciamenti che non quadrano e ti ritrovi con un surplus di energia che non sai dove andrà a finire. Ed il bello sta tutto lì.

Per E. Lee Masters e F. De Andrè

23 febbraio 2015

La problematica della gestione del tempo

Va da sè che devo avere qualcosa che non va alle mani visto quanto mi sta sfuggendo la sabbia del tempo ogni volta che stringo; mi ritrovo a spolverare suppellettili e orpelli inutili dalla polvere di giorni che non mi ricordo come sono passati. Il tempo ha questa sua caratteristica strana di essere fortemente soggettivo ed un po' anarchico; mi volto che sono un ragazzo e mi ritrovo che sto qui a non sapere ancora, esattamente, cosa voglio. Il tempo quando c'ha voglia lui, invece, se ne sta fermo, di solito verso le tre di notte, sul soffitto sopra il mio letto, ovunque capiti che sia il letto e se pure uno volesse giocarci a scopa lui ti inchioda a pensieri, spesso e volentieri, inutili o, peggio, pesanti come vecchie coperte di lana grezza. Ho questo problema sulla gestione del tempo che non mi accorgo quando mi passa davanti, quanto me ne passa davanti e magari me ne sto placido e dovrei muovermi un minimo e poi corro come un forsennato. Il tempo, il suo passaggio, le mani di vernice che dà ai ricordi, alle pareti di tutte le mie stanze, le mie paratie stagne; il tempo passa diverso per ognuno di noi e ripensi, festeggiando o commemorando da solo un anniversario che sembra ricordi solo tu, ripensi che un anniversario, già di suo, quando si sta formando non te ne accorgi mica che sta diventando un anniversario, soprattutto quando, a parametri sbilanciati, per te è un "ciao" e magari invece è un "addio". Il tempo e la sua gestione è un problema irrisolvibile, una di quelle equazioni indifferenziali che la vita ci propina a giorni alterni e con cui, vuoi o non vuoi, devi averci a che fare; equazione che dà un risultato diverso ad ogni persona, ed anche alla stessa persona in momenti diversi; poi ci siamo noi professionisti dell'ingovernabilità del tempo, a cui quella equazione dà un risultato diverso nello stesso momento. Il tempo è segnato nello scorrere e viene detto nel suo esistere, ci diciamo che ore sono e già quando lo diciamo, effettivamente non è più quella data ora; mi arrabatto per pareggiare una gara che non posso che perdere inventandomi il mio persona metodo di gestione del tempo che si basa sull'esistere nel momento stesso in cui avviene.

06 febbraio 2015

Fenomenologia del “tandacàzz”

Già in diverse occasioni mi sono sentito in dovere di catechizzarvi sulla utilità del dialetto rutiglianese nella vita di tutti giorni anche perché, sapete bene, questo blog nasce e si sviluppa con un intento fortemente sociale, poi la vita lo porta a sbandare sulle cazzate. Quest’oggi vorrei puntare la vostra attenzione sull’utilizzo del tandacàzz; tale termine, la cui etimologia è “tanto di questo cazzo”, viene utilizzato per rimarcare quanto poco ci interessi quanto appena sentito; è, in pratica, la rappresentazione terminologica della già esplicata “misura del cazzo che me ne frega”. Certo, alcuni puristi storceranno il naso e punteranno sull’utilizzo di quello che viene considerato più comprensibile dai più, e cioè lo sticazzi nell’accezione romana (es. “Oggi devo andare a Fregene”, “E sticazzi?”). Dall’esempio visto potete capire quanto sia poco potente dovendo usare la “E” e la forma interrogativa, molto più potente ne risulta l’effetto con il tandacàzz (es. “Oggi devo andare a Bisceglie”, “Tandacàzz!”), in questo caso la forma è affermativa e la parola utilizzata una sola, di sicuro maggiore impatto. Altra problematica nascente dall’utilizzo dello sticazzi è che, molto spesso, viene utilizzato in forma positiva, come apprezzamento molto sentito (es. “Oggi ti porto a mangiare la pajata”, “Sticazzi! Bona!”); tale accezione positiva con il tandacàzz non esiste, utilizzando, nel dialetto rutiglianese il più sfumato stùcazz, di cui andremo a parlare in una specifica lezione. Appare dunque chiaro come non ci sia paragone tra il più potente tandacàzz ed il meno incisivo sticazzi, il primo risulta il più adatto in tutte le situazioni in cui si voglia far capire, al nostro interlocutore, che la sua favella ci sta quantomeno annoiando e che se non smette immediatamente ci vedremo costretti a sparecchiargli la faccia con una testata sul setto nasale; immaginate quale effetto meravigliosamente devastante potrebbe avere su vostra suocera che dopo avervi detto, per almeno mezzora, quanto vi consideri inutile, si sente dire in pieno viso, da voi seduti comodi con la faccia quasi annoiata: “Sì? Tandacàzz!”. Anche il vostro datore di lavoro, sentendosi rispondere “Tandacàzz” alle sue rimostranze sull’efficacia dei vostri sforzi lavorativi, sentirà vacillare il terreno della sicurezza sotto i suoi piedi. Ordunque non fate l’errore di dimostrare il cazzo che ve ne frega con un timido sticazzi, siate padroni del vostro destino, osate, usate il tandacàzz.

29 gennaio 2015

Takki alti

La leggenda vuole che, per fare i capelli a Mr Takki, arrivi appositamente un barbiere che per tutto il resto del tempo vive rinchiuso in un manicomio criminale di Manaus, al centro della foresta amazzonica. Altre versioni della stessa leggenda, invece, dicono che il barbiere sia stato rinchiuso lì dopo aver visto i capelli di Mr Takki. Fatto sta che una volta al mese Takki si chiude in una stanza da cui provengono, per due ore, urla disumane e dopo esca con i suoi capelli in perfetto stato brado; dopo di lui, solitamente, pare esca una certa Wanda, una stangona di due metri con un vezzoso neo sul pomo d’Adamo. Il suo vero nome, all’anagrafe, è Carlo ma viene chiamato Mr Takki per la sua insana passione per la carne di tacchino. Va detto, per dovere di cronaca, che alcune malelingue affermano che il nome è dato dalle scarpe che solitamente indossa, la sera, sui controviali. Bambino timido ma precoce, quando, a sei anni, seppe che avrebbe cominciato la scuola elementare disse solo “C’è figa?”, i suoi furono molto divertiti da questa affermazione, lo furono meno quando, il secondo giorno di scuola, furono mandati a chiamare dal Dirigente scolastico perché il figlio aveva guardato sotto la gonna della maestra. Alla domanda “Perché lo hai fatto?!” il bimbo rispose “Per interesse antropologico”; dopo aver controllato sul dizionario la parola ‘antropologico’ il padre si soffermò, con il piccolo, sull’eziologia di questo suo interesse; il piccolo ascoltò con molta cura le parole del padre, soppesò le affermazioni e si convinse di essere andato troppo avanti con il metodo sperimentale, questo tra una cinghiata e l’altra. Va da sé che tale interesse antropologico comunque non poteva essere estirpato dalla mente del piccolo; tanta era la sua voglia di sapere che, ogni volta che poteva, prendeva in pugno la situazione e studiava dei trattati che i compagni di scuola più grandi gli passavano a prezzo di favore, come dimostra la tesina “L’importanza de ‘Le ore mese’ nello sviluppo muscolare del fanciullo”. Questo studio “matto e disperatissimo” (Cit.) non poteva che avere conseguenze sul fisico in crescita del piccolo Carlo; due fra tutte, un braccio destro da giavellottista olimpico ed un evidente calo della vista. Il problema alla vista diventa serio quando, all’età di tredici anni passa mezzora a parlare con l’attaccapanni credendo fosse sua zia Pinuccia; portato ad una visita oculistica il medico cerca insistentemente di fargli leggere la seconda riga del pannello sulla parete, quando ormai sta per dire ai genitori di prendergli un cane con la pettorina con la croce si accorge che Carlo non sta guardando il pannello ma la scollatura della sua assistente, debitamente allontanata la quale gli viene diagnosticata una forte miopia che lo obbligherà a portare gli occhiali, gli stessi occhiali che diventeranno il suo segno distintivo, insieme al tatuaggio “Ramon sfondami” sulla chiappa sinistra, ricordo di un viaggio in Sudamerica di cui non ama parlare. Dopo una carriera scolastica abbastanza positiva ed un corso da video maker da migliore della sua classe, due eventi accadono, a poca distanza l’uno dall’altro, che cambiano per sempre la sua vita: la scoperta dell’esistenza di Vine e l’incontro con il Bomma. Pare si incontrino per la prima volta ad un gruppo di autocoscienza per dipendenti da internet, i “pipparoli anonimi”; in realtà questa versione dei fatti è stata messa in giro dai loro familiari per coprire l’amara verità: i due si sono incontrati per la prima volta tra il pubblico di un concerto di Paolo Belli in cui uno indossava una t-shirt con la scritta “Ruba la mia bicicletta, sarò il tuo sellino” e l’altro aveva un cartoncino con su “Baccini non ti merita”. Si conoscono nell’attesa del loro idolo mentre comprano due birre da 66cl che bevono in un sorso solo e, ruttando in contemporanea, lacerano il timpano del bibitaro; e lì, suggellata da una risata e dalle legnate del neosordo, nasce una solida amicizia.

In questi giorni avevo bisogno di ridere ed allora, ecco a voi un altro di quei personaggi incredibili che ho incontrato su Twitter.

27 gennaio 2015

23 gennaio 2015

Jeans

Tutti ne hanno uno nell'armadio, magari in fondo ad un cassetto oppure appeso sull'ultima delle grucce. Non lo metti tutti i giorni, forse non è adatto al lavoro, forse è un po' liso sul sedere o magari s'è un po' decolorato. Non è l'abito della cena elegante, in tessuto pregiato, quello che ti fa sentire al centro dell'attenzione e nemmeno il pigiama della notte che ti scalda il sonno. Non è la camicia nuova, quella che togli dalla carta, che apri e profuma di nuovo. Non è né il cappotto da cerimonia o la giacca da uscita. Magari c'è stato un periodo in cui lo mettevi ogni volta che potevi, altre che lo trovavi brutto, che ti stava stretto, che non lo trovavi adatto perché era meglio un pantalone elegante; il pantalone che hai sempre desiderato, quello che forse è un po' stretto ai fianchi, che forse la lana punge un po' ma che indossi perché pare sia quello che si deve indossare. Probabilmente è un po' sformato, magari la maggior parte del tempo te lo scordi ma lui è lì, in fondo ad un cassetto oppure sull'ultima gruccia e sai che se un giorno avrai bisogno di comodità, di qualcosa con cui sai di stare bene, potrai aprire l'armadio e mettere quel jeans. Anche alcune persone sono così.

17 gennaio 2015

Fili

Alla fine siamo matasse, gomitoli di fili sparsi, ragnatele di collegamenti che si tirano e si spingono fra di loro. Fili, collegati a frasi, a mezze parole non dette, a esternazioni ripetute. Fili attaccati a immagini, a volti definiti, ad ombre in chiaroscuro. Siamo matasse di terminazioni, collegamenti, ponti tra terre lontane, tra distanze imperscrutabili. Fili tra le persone, tra sconosciuti incontrati per caso, facce in mezzo alle facce. Siamo fili che si spezzano, si riannodano, si aggrovigliano tra le dita fino a non poterle districare. Siamo burattini senza burattinaio appoggiati alle quinte del teatro con i nostri fili sparsi intorno. Fili che ci collegano a tutto come capillari verso la vita, verso le vite. Siamo matasse stese, arrotolate, capovolte; tiriamo i nostri fili, lenze di pesca d'altura, tiriamo collegamenti e conclusioni, tiriamo righe ma non cancelliamo nulla.

08 gennaio 2015

It's so easy...

E' così facile, adesso, convincersi di una fantomatica "supremazia" culturale del mondo occidentale, dimenticandosi tutte le guerre che ha scatenato e che scatena ancora adesso questa supremazia. E' così facile, adesso, dirsi tutti Charlie quando da noi la satira l'abbiamo calpestata fino a farla sparire. E' così facile, adesso, dirsi tutti civili quando fino a ieri abbiamo chiamato "merda" quello che aggiungeva fin anche una virgola al nostro pensiero. E' così facile, adesso, parlare dimenticandosi della regola che dice che il silenzio è d'oro ed invece unire le proprie voci (compresa la mia) al coro di parole che da ieri non fanno che riempire l'etere. E' così facile, adesso, ergersi a paladini di non si sa quale causa, giustificando tutto quello che facciamo noi, a prescindere. E' così facile, adesso, gridare ad una vendetta e non accorgersi che la cosa più spaventosa di questo atto è che fa uscire l'animale che è in tutti noi (in alcuni più, in altri meno). E' così facile ed invece l'unica cosa che dovrebbe essere così facile è innamorarsi.

03 gennaio 2015

Nel 2014...

1) Diego De Silva – Mancarsi
2) Jo Nesbo – il leopardo (ebook) trad. Eva Kampmann
3) Claudia Delillo – Dire fare baciare
4) Christian Raimo – Latte (ebook)
5) Stefano Benni – Pantera
6) Jo Nesbo – lo spettro (ebook) trad. Eva Kampmann
7) Friedrich Durrenmatt – Racconti trad. Umberto Gandini
8) Diego De Silva – Sono contrario alle emozioni
9) Fabio Deotto – Condominio R39
10) Marco Presta – Il piantagrane
11) Giogio Scerbanenco – Europa molto amore (ebook)
12) AA.VV. – Giochi criminali
13) Jo Nesbo – Il pipistrello (ebook) trad. Eva Kampmann
14) Karin Slaughter – Tre giorni per morire (ebook) trad. Tommaso Tocci
15) AA.VV. – Vacanze in giallo
16) Paolo Sorrentino – Tony Pagoda e i suoi amici
17) John Niven – A volte ritorno (ebook) trad. Marco Rossari
18) Gianrico Carofiglio – Una mutevole verità
19) Tom Rob Smith – Bambino 44 trad. Annalisa Garavaglia
20) Gianrico Carofiglio – Il silenzio dell'onda
21) Sebastian Fitzek – La terapia (ebook) trad. Claudia Crivellaro
22) Francesco Piccolo – Momenti di trascurabile felicità
23) Lars Kepler – L'esecutore trad. Alessandro Bassini, Monica Corbetta, Barbara Fagnoni
24) Riccardo Dal Ferro – I pianeti impossibili
25) Alessandro Robecchi – Questa non è una canzone d'amore
26) Edgar Wallace – Il segreto del passato trad. Noemi Fargion
27) George Saunders – Dieci dicembre trad. Cristiana Mennella
28) Tommy Dibari & Fabio Di Credico – La cambusa storia d'amore di altre malattie

Come consuetudine vuole il primo post dell'anno nuovo porta l'elenco dei libri letti l'anno scorso; novità di questo nuovo anno è l'aggiunta del traduttore perché, come dice l'amica Silvia, fanno un grosso lavoro ed è giusto vengano elogiati. Devo dire che mi compiaccio, nove libri in più che nel 2013. Tutti buoni, direi, ottimi anzi; fra tutti consiglio De Silva e Robecchi (di Benni non dico nulla, lo sapete che sono troppo di parte). Quanto al resto, sul 2014 non ho molto da aggiungere a quello che i 90 post già dicono, lo so che spesso sono da interpretare ma mi conforta essere abbastanza sicuro che chi mi conosce mi sa interpretare e chi deve capire, alla fine, capisce.
Detto questo, proprio perché avete insistito tanto vi regalo un'altra foto del viaggio in America.